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Contro le intimidazioni ai cronisti usiamo le nuove armi del codice civile

UNA NORMA  PREVEDE LE SPESE A CARICO DELLA PARTE SOCCOMBENTE

 

Pubblichiamo un articolo scritto per Tabloid, la rivista dell’Ordine giornalisti di Milano

di Alessandro Galimberti

25 novembre 2009 - Mal di cronaca. Alla vigilia dell’approvazione del disegno di legge Alfano, che promette più che mai il silenziatore ai fatti e che potrebbe tornare in aula entro la pausa natalizia,  il termometro della professione volge davvero al brutto.

La conflittualità politica dell’ultima stagione, con gli scoop veri e quelli posticci, i lodi nuovi e le immunità mancate, ha compattato se possibile ancor più il fronte di chi vuole un’informazione omologata ai reality, con picchi di giornalismo “investigativo” riservati semmai alle comode poltrone tv della seconda serata.

E siccome il virus parte dalla testa, ma lì non si ferma, il clima di caccia al giornalista-che-non-si-accomoda cade per effetto domino lungo tutta la dorsale dell’informazione, colpendo forse anche le grandi firme e le grandi testate, ma soprattutto i cronisti locali e gli editori senza peso (e molto spesso senza neppure voglia di stare) nell’agone politico. A far impressione non sono solo e purtroppo i tanti giornalisti minacciati da camorra e mafia, quasi tutti peraltro risucchiati nel cono d’ombra dell’icona Saviano, ma piuttosto gli episodi sempre più numerosi di cronisti e fotoreporter aggrediti durante i servizi esterni (di cui Tabloid ha dato conto nei numeri precedenti), maltrattati quando non strumentalizzati dalle fonti, o lapidati da centinaia di denunce e cause giudiziarie, spesso campate per aria a soli fini intimidatori.

Proprio su questo punto – l’esposizione indifesa alla “spada” giudiziaria – negli ultimi tempi si sono mosse le più autorevoli proposte, dalla “discovery” allargata ai giornalisti (cioè il diritto di acquisire copia degli atti processuali depositati, per scongiurare la pericolosa dipendenza dalle parti del processo e dai loro avvocati), alla cauzione da imporre a chi querela i giornalisti, fino al risarcimento-penitenza per chi perde la causa azzardata intentata a un giornale o a una tv.

 Tutte queste idee hanno il merito di affrontare un problema reale suggerendo soluzioni pratiche e di buon senso ma che, bisogna esserne consapevoli, nessun politico si sognerebbe mai di portare in parlamento, come la parabola dei ddl Mastella prima e Alfano poi dimostra. La trasparenza dell’informazione, il fair play della cronaca (da non confondere con l’attitudine alla pieghevolezza) sono princìpi che stanno a cuore  alla maggioranza della categoria, ma certo non ai colletti bianchi delle lobby economiche né ai doppiopetti della politica.

In questo clima di guerra totale vale allora la pena di sfruttare i rimedi – piccoli ma significativi  - introdotti da uno dei tanti maquillage sui codici approvati negli ultimi mesi, proprio sul tema “cause civili”. In particolare la legge ora prevede in modo tassativo che le spese processuali siano totalmente a carico della parte soccombente: in sostanza il giudice quando respinge la citazione per danni contro il giornalista, dovrà scaricare costi e parcelle su chi ha promosso l’azione contro di lui. E, se l’azione era stata iniziata <in mala fede> o <con colpa grave> (come non è impossibile dimostrare se il lavoro del cronista era stato corretto e trasparente) il giudice su istanza dovrà (ma può anche di propria iniziativa) condannare il “querelante” anche a un risarcimento del danno nei confronti del giornalista ingiustamente portato a processo.

Far vivere queste norme a difesa della professione (articoli 92 e 96 del codice di procedura civile)  dipende solo da noi e dai nostri legali: è importante che i giudici siano costretti nei prossimi mesi a misurarsi con queste regole nuove, nella speranza che aiutino a calmierare il mercato nero delle intimidazioni giudiziarie.

Poi serviranno altri correttivi, certo, che è necessario promuovere in parlamento. Per esempio, prevedere che prima di citare per danni un cronista, il presunto diffamato lo denunci in sede penale per diffamazione. La differenza? Mentre la querela va presentata entro 90 giorni – e sarà poi valutata da magistrati che trattano <reati> -  la citazione civilistica può pendere sulla testa per 5 anni prima di essere depositata (con effetto intimidatorio permanente) e sarà poi valutata da giudici non avvezzi a trattare <reati>, ma che nonostante ciò dovranno accertare incidentalmente la <diffamazione> senza il rigore che la prova penale impone.

Quando certa politica riempie giornali e tv di ovvietà sulla durata dei processi e delle inchieste, sul diritto alla certezza dei tempi della giustizia, potrebbe dare un bell’esempio di civilità giuridica cominciando proprio da qui. Ammesso che lo voglia.

 

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Quaderno sul Ddl Alfano

 

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Libro Giornata della Memoria